Fino alla prima metà del XIX secolo, gli interessi fondamentali della classe dirigente degli stati preunitari, composta prevalentemente dalla vecchia nobiltà fondiaria e dalla grande borghesia terriera, si fondavano sulla rendita agraria o sul commercio di merci agricole. Sembrava comunque difficile che la produzione industriale italiana potesse competere con quella dei paesi che avevano già acquisito un notevole sviluppo tecnico, con costi e prezzi assai competitivi. Solo l’industria tessile aveva una qualche consistenza, benché i telai di ferro mossi ad acqua avevano appena fatto la loro comparsa, mentre l’Inghilterra poteva già disporre di circa 5000 telai meccanici, essa tendeva a coprire la domanda nazionale.
Assai più arretrate erano le condizioni delle industrie metallurgiche e meccaniche, settori che altrove stavano assumendo un ruolo fondamentale nel processo di industrializzazione.
Nel 1855 in Italia non si produceva acciaio industrialmente, mentre la produzione di ghisa assommava a non oltre 30.000 tonnellate, circa lo 0,30% della produzione mondiale. Per comprendere le potenzialità della siderurgia italiana occorre tenere conto del fatto che nel 1861 furono importate nella penisola italiana 36.000 tonnellate di ghisa e poco meno di 60.000 di ferro. Maturò ben presto la necessità dell’autosufficienza nella produzione di ghisa, indotta soprattutto dalla grande espansione della produzione mondiale dell’acciaio, che nel assommava a 400.000 tonnellate, passate nel 1880 a 4.200.000 e nel 1890 a 12.500.000. L’introduzione del forno elettrico rinnovò ben presto le basi dell’industria siderurgica, creando nuove leghe ed acciai speciali.
La politica liberista postunitaria non diede i risultati sperati, mentre i riflessi positivi del corso forzoso, che manteneva costante la svalutazione della nostra moneta rispetto alle altre unità europee e favoriva l’export, si combinava con l’allargamento del mercato interno.
L’occupazione francese della Tunisia del 1881 e la minaccia che si chiudessero gli spazi ancora aperti in Africa e nel Mediterraneo, affrettò i progetti del governo italiano per il riordinamento dei cantieri e lo sviluppo di un moderno naviglio a vapore. Fu fondata la Compagnia Generale di Navigazione Italiana ed impiantata una grande acciaieria a Terni (1884), la quale doveva fornire corazze e cannoni per la Marina Militare.
Le misure protezionistiche varate nel 1887 salvaguardarono sia la produzione agricola (minacciata soprattutto dalle produzioni cerealicole statunitensi e russe) sia la neonata industria siderurgica e meccanica. Più precisamente, le nuove tariffe doganali furono larghe di concessioni per l’industria siderurgica ma finirono per sacrificare, a causa dell’alto costo delle materie prime, l’evoluzione del settore meccanico.
Purtroppo lo slancio dell’industria italiana si scontrò presto con il dissesto del sistema bancario. Consistenti riserve finanziarie erano state dirottate nel settore della speculazione edilizia, e particolarmente tra il 1881 e il 1885, quando quasi il 25% degli investimenti totali si indirizzarono verso questo settore. Ben presto numerose banche si trovarono, alla fine degli anni ottanta, con pesanti immobilizzi. Il dissesto finanziario che ne seguì evidenziò il bisogno di un risanamento delle banche di emissione e delle finanze statali, al fine di ottenere un reale sviluppo economico del paese.
A ciò si aggiunga il crollo delle esportazioni sul mercato francese, causato dalla guerra doganale franco italiana che ebbe il suo apice nel 1889. La produzione di acciaio si ridusse, tra il 1889 e il 1898, da 157.000 a 87.000 tonnellate; nello stesso periodo la produzione di ferro scese da 181.000 a 167.000 tonnellate. Nonostante ciò l’industria siderurgica, sorretta soprattutto dal formarsi di un mercato interno, favorito a sua volta dalle politiche governative, aveva attuato un rinnovamento degli impianti, i forni Martin Siemens erano passati da 21 a 40.
Il decollo industriale italiano avvenne in condizioni sostanzialmente diverse da quelle affrontate a suo tempo, ad esempio, dall’Inghilterra. Alla fine dell’ottocento il grado di accumulazione indispensabile per promuovere un adeguato processo di industrializzazione era molto alto. Tuttavia, fin dall’inizio del XX secolo la struttura industriale italiana si andò consolidando e si formò una società moderna. L’industria manifatturiera raddoppiò in una quindicina di anni il volume di produzione, gli addetti all’industria passarono da 1.275.000 del 1903, a 2.304.000 del 1911. A questo sviluppo contribuirono il mutamento della congiuntura economica internazionale, l’aumento dei prezzi, l’introduzione di nuove tecniche, il risanamento della situazione monetaria, l’avvento di un nuovo sistema creditizio nonché un più efficace intervento dello Stato nella vita economica. Dall’età del ferro e del vapore si passò all’età dell’elettricità e del motore a scoppio.
La produzione di energia elettrica in grandi centrali e la sua distribuzione a distanza slegarono le imprese da molti vincoli di tipo naturale e i paesi più poveri di combustibile dai rifornimenti esteri di carbone.
Dall’inizio del novecento l’industria elettrica fece grandi progressi. Il sistema industriale poté rafforzare le sue fonti energetiche, liberandosi, in alcuni casi dalla schiavitù dell’energia idraulica e in altri dalla stretta dipendenza dal carbone di importazione. Nel 1911 il 56% della potenza complessiva degli stabilimenti tessili era fornita da motori elettrici, mentre il grado di elettrificazione delle industrie meccaniche e chimiche era del 71%.
Insieme alle innovazioni tecnologiche, allo sviluppo del sistema creditizio e all’incremento delle risorse energetiche, giocò un ruolo importante nel decollo dell’industria italiana anche la nuova dimensione del mercato. Il commercio estero italiano crebbe del 118% tra il 1900 e il 1914, aumentò la popolazione ed anche i consumi interni. Dopo il 1903 quasi un milione di nuovi lavoratori aveva fatto ingresso nelle fabbriche del Nord.
Nel 1911 si contavano nelle regioni settentrionali una settantina di opifici con oltre un migliaio di addetti. Si ebbe una consistente mobilitazione di manodopera dalle campagne alla città. Altri lavoratori si erano mossi già da tempo verso la città, trovando occupazione nell’edilizia e nella costruzione delle ferrovie. Occorre considerare inoltre che, dal 1881 al 1901, quasi 2.200.000 persone erano emigrate ed altre 1.700.000 le seguiranno nel decennio successivo, contro un esodo europeo complessivo che, solo per la destinazione degli Stati Uniti raggiunse le 10.500.000 unità. Si trattava in grande maggioranza di lavoratori agricoli. In quegli anni, nelle grandi città, specialmente del Nord, la popolazione residente subì dei notevolissimi incrementi, anche oltre il 50%. Una quota consistente dell’occupazione si incanalò verso la manifattura. Furono quelli anche anni contrassegnati anche da lotte sociali. I provvedimenti promossi dal Governo per l’assistenza, per il riposo festivo, per l’edilizia popolare, non furono più sufficienti, dopo il 1906 a contenere gli indirizzi di lotta più radicali che covavano nelle organizzazioni operaie.
La guerra sembrò risolvere tutti i problemi. Le ordinazioni belliche dettero slancio agli investimenti e i profitti consentirono alle imprese di disporre di forti liquidità come mai prima. Nel 1916 gli stabilimenti ausiliari erano passati da 220 a 800. Dal 21% del 1915-16, la quota della spesa del Governo per gli armamenti salì, nel 1916-17 al 34,2%, crescendo ulteriormente nell’anno successivo. La guerra favorì anche la rapida affermazione del settore aeronautico ed un notevole incremento della cantieristica navale.
La congiuntura bellica si rivelò altrettanto benefica per l’industria elettrica, per quella tessile e per la chimica che se vide ridotta la domanda di concimi chimici, incrementò in compenso la fabbricazione di prodotti di impiego bellico, di esplosivi, di idrogeno e ossigeno, di derivati del gas, ecc. L’industria della gomma si affermò definitivamente come un settore di grandi potenzialità. All’indomani del conflitto, esaurite le commesse statali, molti settori della grande industria si trovarono alle prese con l’eccessiva potenzialità degli impianti e con un eccesso di manodopera.
Per molti anni le banche avevano favorito la formazione, nel campo dell’industria pesante, di grosse concentrazioni. Ad esempio, la Banca Commerciale aveva finanziato la Terni e l’Ilva, il Credito Italiano la Fiat, il Banco di Roma la Breda e così via. Come conseguenza della grande mole di profitti accumulati dalla grande industria il rapporto si andava modificando, dal 1917 i grandi istituti di credito stavano trasformandosi in semplici succursali dei maggiori trusts industriali. L’Ansaldo ad esempio aveva acquistato la maggioranza delle azioni della Banca Italiana di Sconto. Con la fine della guerra, le principali imprese si trovarono a non contare più sulle generose anticipazioni dello Stato per le commesse militari. Dovendo disporre di fondi liquidi, esse pensarono di trarli a buon prezzo dai depositi dei risparmiatori.
Soltanto la Terni riuscì a superare la fase più cruciale della smobilitazione. Arturo Bocciardo, che nel 1921 assunse l’incarico di amministratore delegato della società, seppe integrare le attività siderurgico cantieristiche con nuove produzioni, come quelle chimiche e idroelettriche. La situazione della grande industria si aggravò ai primi sintomi della recessione economica, manifestatasi in Europa all’inizio del ’21, data la concorrenza sempre più intensa della produzione americana, la quale provocò un abbassamento dei prezzi industriali e agricoli. I primi a risentirne furono i complessi esposti eccessivamente con le banche.
Ben presto l’Ilva si trovò senza l’appoggio dei suoi principali creditori, la Banca Commerciale e il Credito Italiano. La stessa sorte subì l’Ansaldo che fu abbandonata dalla Banca Italiana di Sconto, la quale a causa dei pesanti immobilizzi (600 milioni) verso la società genovese fu costretta, nel dicembre 1921, a chiudere gli sportelli di fronte ad una esposizione debitoria eccedente i mezzi messi a disposizione da un consorzio di banche di salvataggio. L’Ansaldo venne smembrata. Le officine meccaniche furono cedute ad una nuova società creata nel ’23 sotto lo stesso nome.
Il governo fascista esordì in un momento particolarmente fortunato per l’economia che si trovava all’inizio di una fase ascendente. Si era ormai dileguata la minaccia di altri dissesti, i frutti più abbondanti dello sviluppo economico degli anni venti si raccolsero soprattutto nell’industria elettrica, in quella chimica e del gas, nella meccanica di precisione, nei mezzi di trasporto e nelle fibre artificiali. Quest’ultimo settore, contava nel 1906, 1750 milioni di investimenti. Nel 1929 il settore chimico tessile vantava una produzione di oltre 32.000 tonnellate rispetto alle 1.500 del 1921, grazie soprattutto all’eccezionale espansione della Snia Viscosa che, in quell’anno, copriva circa l’80% della produzione nazionale, pari ad un quinto di quella europea.
Con l’avvento al potere del fascismo sembrò rafforsarzi la tendenza alla ricerca dell’indipendenza economica del paese. Sempre più sentito fu il problema della carenza di materie prime, particolarmente di energia. Fatto pari a 100 il totale del capitale sociale delle società anonime industriali italiane nel 1916, il settore elettrico partecipava nello stesso anno con il 18,81%, scendeva al 16,70% nell’immediato periodo post bellico ma risaliva al 19,35% nel 1923, per raggiungere il 25% nel 1926, il 29% nel 1929 e ben il 33% nel 1931. Quindi, tra il 1922 e il 1930, si registrò un consistente orientamento degli investimenti in direzione della conquista della indipendenza energetica del paese.
La crisi americana del ’29 bloccò l’iniziale ripresa italiana ed aggravò in un colpo gli squilibri della nostra economia, il terremoto abbattutosi sul sistema finanziario americano rese impossibile il proseguimento dei prestiti verso l’Europa. Questa bufera economica minacciò di sconvolgere gli equilibri politici e sociali realizzati dopo l’avvento del regime fascista. Le condizioni finanziarie sempre più precarie di certe imprese minacciavano ormai di travolgere i principali istituti di credito. Lo stato intervenne per lo smobilizzo delle partecipazioni più consistenti, ma ciò non servì a molto e nel gennaio 1933 fu fondata l’IRI.
Si giunse, nel marzo ’34, allo smobilizzo pubblico delle banche miste. Lo Stato mise a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite bancarie (6 miliardi di lire circa), ma contemporaneamente acquistò i titoli e le proprietà industriali delle banche, provvedendo alla loro gestione.
La legge bancaria del ’36 vietò alle banche di deposito e di sconto di intervenire nel campo del credito industriale, mentre Governo e Banca d’Italia accentrarono una serie di attribuzioni con compiti di vigilanza e controllo permanente. Decisive per risollevare le sorti dell’industria furono le eccezionali spese statali per armamenti e altri beni e servizi, varate in occasione della guerra d’Abissinia. La produzione dell’industria meccanica salì, tra il 1934 e il 1937, dall’indice 72 a 126, quella elettrica da 117 a 145, la siderurgica da 82 a 103, la chimica da 91 a 126. In realtà l’Abissinia non valeva il denaro speso per conquistarla ma la disoccupazione nel settore industriale si ridusse, fin dal 1936, di quasi la metà rispetto al 1932. Tra il 1936 e il 1941 si ebbe una spesa di quasi 1500 miliardi (valore indicizzato al 1974) in relazione alla politica coloniale in Africa orientale.
Nel giugno 1937 l’IRI venne trasformato in ente permanente, in quell’anno l’Istituto vantava tre banche di prim’ordine, come l’IMI e il Credito Italiano, tutto il gruppo delle società di navigazione, comprese dal 1936 nella FINMARE, il complesso delle società telefoniche dell’Italia settentrionale, i due più importanti cantieri navali, Ansaldo e Odero-Terni-Orlando, la principale concentrazione siderurgica nazionale, Ilva, Dalmine, Acciaierie Ansaldo di Cornigliano, Terni, ecc.
La politica autarchica non si era rivelata come quel potente strumento di rafforzamento del sistema economico e militare che Mussolini voleva far credere. L’autarchia avvantaggiava soprattutto le imprese del settore chimico, elettrico e cantieristico che sfruttavano in maggior misura la spesa pubblica e le agevolazioni in materia fiscale e di autofinanziamento, assai meno le aziende meccaniche e quelle tessili, interessate, per le loro stesse caratteristiche strutturali, a nuovi sbocchi sul mercato internazionale. Si ebbe quindi, nella realtà, una politica basata sul binomio tra autarchia ed esportazione, sotto certi aspetti ambigua ma tagliata su misura rispetto alle reali potenzialità del paese. L’autarchia si proponeva infatti di rafforzare la base produttiva, e tuttavia, non era possibile per una nazione dipendente dall’estero come l’Italia, realizzare ciò senza l’apporto di materie prime e divise estere, che soltanto una espansione delle esportazioni poteva fornire.
Data la facilità di reperimento delle materie prime, fin dall’ultimo decennio dell’ottocento si sviluppò in Italia, la produzione di carburo di calcio, per il cui processo produttivo occorrevano solamente tre fattori, calce, carbone ed energia elettrica. Nel 1896 si costituì, a Roma, la Società Italiana per il Carburo di Calcio Acetilene ed Altri Gas, la quale acquistò dalla Aluminium Gesellschaft il brevetto per la produzione di carburo di calcio. La Carburo costruì un impianto sperimentale nei pressi di Terni, a Collestatte Piano, su un terreno di 4.588 mq e, nel 1899, arrivò ad occupare una superficie di 39.490 mq e a realizzare una produzione di 12 tonnellate al giorno di carburo.
Nel 1901 entrò in funzione un altro stabilimento a Papigno, il quale disponeva di venti forni che si andavano ad aggiungere ai dodici dell’impianto di Collestatte. Questi due impianti produssero, oltre al carburo di calcio, anche la cianamide e il solfato di ammonio. Dall’inizio del secolo si andò estendendo l’area di attività dell’industria chimica, la quale, tra le attività industriali fu quella che realizzò il più alto saggio di sviluppo (prima della depressione del 1907), superiore anche a quello delle imprese meccaniche e metallurgiche.
Crebbe la produzione di acido solforico, della calciocianamide e del carburo di calcio, settori che videro l’Italia come uno dei massimi produttori mondiali. Ma nei settori dei prodotti farmaceutici e dei componenti organici l’industria non riuscì a liberarsi dalla supremazia delle case tedesche. Il settore della gomma, nel frattempo, si era definitivamente consolidato.
Nel 1888 era nata la Società delle Miniere di Montecatini, per lo sfruttamento di un giacimento di rame, nei pressi dell’omonima cittadina, dopo il 1910 l’azienda imboccò il cammino che l‘avrebbe portata a privilegiare l’attività chimica su quella estrattiva. Nel 1920 la Montecatini era la più grande fornitrice di prodotti chimici per l’agricoltura esistente in Italia, la sua attività si estese ai prodotti chimici per l’industria a partire dal 1930.
Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, Luigi Casale a Terni e Giacomo Fauser a Novara, realizzarono, indipendentemente l’uno dall’altro, un processo per la produzione di ammoniaca, basato sull’ottenimento di idrogeno per elettrolisi. Nel 1920 nasceva la Società Elettrochimica Novarese (SEN), nel 1922, annesso allo stabilimento per la produzione di ammoniaca, sorse a Novara il primo laboratorio industriale italiano di ricerche chimiche. Per la Montecatini si apriva una fase che l’avrebbe condotta allo sviluppo dell’industria dell’azoto.
Nel 1924 sorse, a Novara, il primo impianto industriale per la produzione di ammoniaca, con una capacità di 15 tonnellate/giorno, insieme agli impianti per la produzione di acido nitrico, acido solforico e solfato ammonico. Nello stesso 1924 altri impianti per la produzione di ammoniaca con metodo Fauser vennero realizzati a Sassari, nei pressi di Merano, a Belluno e a Crotone.
Con la messa a punto della produzione industriale di ammoniaca e di acido nitrico si delineò lo sviluppo dei fertilizzanti azotati, primo fra tutti il solfato ammonico.
Assai più arretrate erano le condizioni delle industrie metallurgiche e meccaniche, settori che altrove stavano assumendo un ruolo fondamentale nel processo di industrializzazione.
Nel 1855 in Italia non si produceva acciaio industrialmente, mentre la produzione di ghisa assommava a non oltre 30.000 tonnellate, circa lo 0,30% della produzione mondiale. Per comprendere le potenzialità della siderurgia italiana occorre tenere conto del fatto che nel 1861 furono importate nella penisola italiana 36.000 tonnellate di ghisa e poco meno di 60.000 di ferro. Maturò ben presto la necessità dell’autosufficienza nella produzione di ghisa, indotta soprattutto dalla grande espansione della produzione mondiale dell’acciaio, che nel assommava a 400.000 tonnellate, passate nel 1880 a 4.200.000 e nel 1890 a 12.500.000. L’introduzione del forno elettrico rinnovò ben presto le basi dell’industria siderurgica, creando nuove leghe ed acciai speciali.
La politica liberista postunitaria non diede i risultati sperati, mentre i riflessi positivi del corso forzoso, che manteneva costante la svalutazione della nostra moneta rispetto alle altre unità europee e favoriva l’export, si combinava con l’allargamento del mercato interno.
L’occupazione francese della Tunisia del 1881 e la minaccia che si chiudessero gli spazi ancora aperti in Africa e nel Mediterraneo, affrettò i progetti del governo italiano per il riordinamento dei cantieri e lo sviluppo di un moderno naviglio a vapore. Fu fondata la Compagnia Generale di Navigazione Italiana ed impiantata una grande acciaieria a Terni (1884), la quale doveva fornire corazze e cannoni per la Marina Militare.
Le misure protezionistiche varate nel 1887 salvaguardarono sia la produzione agricola (minacciata soprattutto dalle produzioni cerealicole statunitensi e russe) sia la neonata industria siderurgica e meccanica. Più precisamente, le nuove tariffe doganali furono larghe di concessioni per l’industria siderurgica ma finirono per sacrificare, a causa dell’alto costo delle materie prime, l’evoluzione del settore meccanico.
Purtroppo lo slancio dell’industria italiana si scontrò presto con il dissesto del sistema bancario. Consistenti riserve finanziarie erano state dirottate nel settore della speculazione edilizia, e particolarmente tra il 1881 e il 1885, quando quasi il 25% degli investimenti totali si indirizzarono verso questo settore. Ben presto numerose banche si trovarono, alla fine degli anni ottanta, con pesanti immobilizzi. Il dissesto finanziario che ne seguì evidenziò il bisogno di un risanamento delle banche di emissione e delle finanze statali, al fine di ottenere un reale sviluppo economico del paese.
A ciò si aggiunga il crollo delle esportazioni sul mercato francese, causato dalla guerra doganale franco italiana che ebbe il suo apice nel 1889. La produzione di acciaio si ridusse, tra il 1889 e il 1898, da 157.000 a 87.000 tonnellate; nello stesso periodo la produzione di ferro scese da 181.000 a 167.000 tonnellate. Nonostante ciò l’industria siderurgica, sorretta soprattutto dal formarsi di un mercato interno, favorito a sua volta dalle politiche governative, aveva attuato un rinnovamento degli impianti, i forni Martin Siemens erano passati da 21 a 40.
Il decollo industriale italiano avvenne in condizioni sostanzialmente diverse da quelle affrontate a suo tempo, ad esempio, dall’Inghilterra. Alla fine dell’ottocento il grado di accumulazione indispensabile per promuovere un adeguato processo di industrializzazione era molto alto. Tuttavia, fin dall’inizio del XX secolo la struttura industriale italiana si andò consolidando e si formò una società moderna. L’industria manifatturiera raddoppiò in una quindicina di anni il volume di produzione, gli addetti all’industria passarono da 1.275.000 del 1903, a 2.304.000 del 1911. A questo sviluppo contribuirono il mutamento della congiuntura economica internazionale, l’aumento dei prezzi, l’introduzione di nuove tecniche, il risanamento della situazione monetaria, l’avvento di un nuovo sistema creditizio nonché un più efficace intervento dello Stato nella vita economica. Dall’età del ferro e del vapore si passò all’età dell’elettricità e del motore a scoppio.
La produzione di energia elettrica in grandi centrali e la sua distribuzione a distanza slegarono le imprese da molti vincoli di tipo naturale e i paesi più poveri di combustibile dai rifornimenti esteri di carbone.
Dall’inizio del novecento l’industria elettrica fece grandi progressi. Il sistema industriale poté rafforzare le sue fonti energetiche, liberandosi, in alcuni casi dalla schiavitù dell’energia idraulica e in altri dalla stretta dipendenza dal carbone di importazione. Nel 1911 il 56% della potenza complessiva degli stabilimenti tessili era fornita da motori elettrici, mentre il grado di elettrificazione delle industrie meccaniche e chimiche era del 71%.
Insieme alle innovazioni tecnologiche, allo sviluppo del sistema creditizio e all’incremento delle risorse energetiche, giocò un ruolo importante nel decollo dell’industria italiana anche la nuova dimensione del mercato. Il commercio estero italiano crebbe del 118% tra il 1900 e il 1914, aumentò la popolazione ed anche i consumi interni. Dopo il 1903 quasi un milione di nuovi lavoratori aveva fatto ingresso nelle fabbriche del Nord.
Nel 1911 si contavano nelle regioni settentrionali una settantina di opifici con oltre un migliaio di addetti. Si ebbe una consistente mobilitazione di manodopera dalle campagne alla città. Altri lavoratori si erano mossi già da tempo verso la città, trovando occupazione nell’edilizia e nella costruzione delle ferrovie. Occorre considerare inoltre che, dal 1881 al 1901, quasi 2.200.000 persone erano emigrate ed altre 1.700.000 le seguiranno nel decennio successivo, contro un esodo europeo complessivo che, solo per la destinazione degli Stati Uniti raggiunse le 10.500.000 unità. Si trattava in grande maggioranza di lavoratori agricoli. In quegli anni, nelle grandi città, specialmente del Nord, la popolazione residente subì dei notevolissimi incrementi, anche oltre il 50%. Una quota consistente dell’occupazione si incanalò verso la manifattura. Furono quelli anche anni contrassegnati anche da lotte sociali. I provvedimenti promossi dal Governo per l’assistenza, per il riposo festivo, per l’edilizia popolare, non furono più sufficienti, dopo il 1906 a contenere gli indirizzi di lotta più radicali che covavano nelle organizzazioni operaie.
La guerra sembrò risolvere tutti i problemi. Le ordinazioni belliche dettero slancio agli investimenti e i profitti consentirono alle imprese di disporre di forti liquidità come mai prima. Nel 1916 gli stabilimenti ausiliari erano passati da 220 a 800. Dal 21% del 1915-16, la quota della spesa del Governo per gli armamenti salì, nel 1916-17 al 34,2%, crescendo ulteriormente nell’anno successivo. La guerra favorì anche la rapida affermazione del settore aeronautico ed un notevole incremento della cantieristica navale.
La congiuntura bellica si rivelò altrettanto benefica per l’industria elettrica, per quella tessile e per la chimica che se vide ridotta la domanda di concimi chimici, incrementò in compenso la fabbricazione di prodotti di impiego bellico, di esplosivi, di idrogeno e ossigeno, di derivati del gas, ecc. L’industria della gomma si affermò definitivamente come un settore di grandi potenzialità. All’indomani del conflitto, esaurite le commesse statali, molti settori della grande industria si trovarono alle prese con l’eccessiva potenzialità degli impianti e con un eccesso di manodopera.
Per molti anni le banche avevano favorito la formazione, nel campo dell’industria pesante, di grosse concentrazioni. Ad esempio, la Banca Commerciale aveva finanziato la Terni e l’Ilva, il Credito Italiano la Fiat, il Banco di Roma la Breda e così via. Come conseguenza della grande mole di profitti accumulati dalla grande industria il rapporto si andava modificando, dal 1917 i grandi istituti di credito stavano trasformandosi in semplici succursali dei maggiori trusts industriali. L’Ansaldo ad esempio aveva acquistato la maggioranza delle azioni della Banca Italiana di Sconto. Con la fine della guerra, le principali imprese si trovarono a non contare più sulle generose anticipazioni dello Stato per le commesse militari. Dovendo disporre di fondi liquidi, esse pensarono di trarli a buon prezzo dai depositi dei risparmiatori.
Soltanto la Terni riuscì a superare la fase più cruciale della smobilitazione. Arturo Bocciardo, che nel 1921 assunse l’incarico di amministratore delegato della società, seppe integrare le attività siderurgico cantieristiche con nuove produzioni, come quelle chimiche e idroelettriche. La situazione della grande industria si aggravò ai primi sintomi della recessione economica, manifestatasi in Europa all’inizio del ’21, data la concorrenza sempre più intensa della produzione americana, la quale provocò un abbassamento dei prezzi industriali e agricoli. I primi a risentirne furono i complessi esposti eccessivamente con le banche.
Ben presto l’Ilva si trovò senza l’appoggio dei suoi principali creditori, la Banca Commerciale e il Credito Italiano. La stessa sorte subì l’Ansaldo che fu abbandonata dalla Banca Italiana di Sconto, la quale a causa dei pesanti immobilizzi (600 milioni) verso la società genovese fu costretta, nel dicembre 1921, a chiudere gli sportelli di fronte ad una esposizione debitoria eccedente i mezzi messi a disposizione da un consorzio di banche di salvataggio. L’Ansaldo venne smembrata. Le officine meccaniche furono cedute ad una nuova società creata nel ’23 sotto lo stesso nome.
Il governo fascista esordì in un momento particolarmente fortunato per l’economia che si trovava all’inizio di una fase ascendente. Si era ormai dileguata la minaccia di altri dissesti, i frutti più abbondanti dello sviluppo economico degli anni venti si raccolsero soprattutto nell’industria elettrica, in quella chimica e del gas, nella meccanica di precisione, nei mezzi di trasporto e nelle fibre artificiali. Quest’ultimo settore, contava nel 1906, 1750 milioni di investimenti. Nel 1929 il settore chimico tessile vantava una produzione di oltre 32.000 tonnellate rispetto alle 1.500 del 1921, grazie soprattutto all’eccezionale espansione della Snia Viscosa che, in quell’anno, copriva circa l’80% della produzione nazionale, pari ad un quinto di quella europea.
Con l’avvento al potere del fascismo sembrò rafforsarzi la tendenza alla ricerca dell’indipendenza economica del paese. Sempre più sentito fu il problema della carenza di materie prime, particolarmente di energia. Fatto pari a 100 il totale del capitale sociale delle società anonime industriali italiane nel 1916, il settore elettrico partecipava nello stesso anno con il 18,81%, scendeva al 16,70% nell’immediato periodo post bellico ma risaliva al 19,35% nel 1923, per raggiungere il 25% nel 1926, il 29% nel 1929 e ben il 33% nel 1931. Quindi, tra il 1922 e il 1930, si registrò un consistente orientamento degli investimenti in direzione della conquista della indipendenza energetica del paese.
La crisi americana del ’29 bloccò l’iniziale ripresa italiana ed aggravò in un colpo gli squilibri della nostra economia, il terremoto abbattutosi sul sistema finanziario americano rese impossibile il proseguimento dei prestiti verso l’Europa. Questa bufera economica minacciò di sconvolgere gli equilibri politici e sociali realizzati dopo l’avvento del regime fascista. Le condizioni finanziarie sempre più precarie di certe imprese minacciavano ormai di travolgere i principali istituti di credito. Lo stato intervenne per lo smobilizzo delle partecipazioni più consistenti, ma ciò non servì a molto e nel gennaio 1933 fu fondata l’IRI.
Si giunse, nel marzo ’34, allo smobilizzo pubblico delle banche miste. Lo Stato mise a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite bancarie (6 miliardi di lire circa), ma contemporaneamente acquistò i titoli e le proprietà industriali delle banche, provvedendo alla loro gestione.
La legge bancaria del ’36 vietò alle banche di deposito e di sconto di intervenire nel campo del credito industriale, mentre Governo e Banca d’Italia accentrarono una serie di attribuzioni con compiti di vigilanza e controllo permanente. Decisive per risollevare le sorti dell’industria furono le eccezionali spese statali per armamenti e altri beni e servizi, varate in occasione della guerra d’Abissinia. La produzione dell’industria meccanica salì, tra il 1934 e il 1937, dall’indice 72 a 126, quella elettrica da 117 a 145, la siderurgica da 82 a 103, la chimica da 91 a 126. In realtà l’Abissinia non valeva il denaro speso per conquistarla ma la disoccupazione nel settore industriale si ridusse, fin dal 1936, di quasi la metà rispetto al 1932. Tra il 1936 e il 1941 si ebbe una spesa di quasi 1500 miliardi (valore indicizzato al 1974) in relazione alla politica coloniale in Africa orientale.
Nel giugno 1937 l’IRI venne trasformato in ente permanente, in quell’anno l’Istituto vantava tre banche di prim’ordine, come l’IMI e il Credito Italiano, tutto il gruppo delle società di navigazione, comprese dal 1936 nella FINMARE, il complesso delle società telefoniche dell’Italia settentrionale, i due più importanti cantieri navali, Ansaldo e Odero-Terni-Orlando, la principale concentrazione siderurgica nazionale, Ilva, Dalmine, Acciaierie Ansaldo di Cornigliano, Terni, ecc.
La politica autarchica non si era rivelata come quel potente strumento di rafforzamento del sistema economico e militare che Mussolini voleva far credere. L’autarchia avvantaggiava soprattutto le imprese del settore chimico, elettrico e cantieristico che sfruttavano in maggior misura la spesa pubblica e le agevolazioni in materia fiscale e di autofinanziamento, assai meno le aziende meccaniche e quelle tessili, interessate, per le loro stesse caratteristiche strutturali, a nuovi sbocchi sul mercato internazionale. Si ebbe quindi, nella realtà, una politica basata sul binomio tra autarchia ed esportazione, sotto certi aspetti ambigua ma tagliata su misura rispetto alle reali potenzialità del paese. L’autarchia si proponeva infatti di rafforzare la base produttiva, e tuttavia, non era possibile per una nazione dipendente dall’estero come l’Italia, realizzare ciò senza l’apporto di materie prime e divise estere, che soltanto una espansione delle esportazioni poteva fornire.
Data la facilità di reperimento delle materie prime, fin dall’ultimo decennio dell’ottocento si sviluppò in Italia, la produzione di carburo di calcio, per il cui processo produttivo occorrevano solamente tre fattori, calce, carbone ed energia elettrica. Nel 1896 si costituì, a Roma, la Società Italiana per il Carburo di Calcio Acetilene ed Altri Gas, la quale acquistò dalla Aluminium Gesellschaft il brevetto per la produzione di carburo di calcio. La Carburo costruì un impianto sperimentale nei pressi di Terni, a Collestatte Piano, su un terreno di 4.588 mq e, nel 1899, arrivò ad occupare una superficie di 39.490 mq e a realizzare una produzione di 12 tonnellate al giorno di carburo.
Nel 1901 entrò in funzione un altro stabilimento a Papigno, il quale disponeva di venti forni che si andavano ad aggiungere ai dodici dell’impianto di Collestatte. Questi due impianti produssero, oltre al carburo di calcio, anche la cianamide e il solfato di ammonio. Dall’inizio del secolo si andò estendendo l’area di attività dell’industria chimica, la quale, tra le attività industriali fu quella che realizzò il più alto saggio di sviluppo (prima della depressione del 1907), superiore anche a quello delle imprese meccaniche e metallurgiche.
Crebbe la produzione di acido solforico, della calciocianamide e del carburo di calcio, settori che videro l’Italia come uno dei massimi produttori mondiali. Ma nei settori dei prodotti farmaceutici e dei componenti organici l’industria non riuscì a liberarsi dalla supremazia delle case tedesche. Il settore della gomma, nel frattempo, si era definitivamente consolidato.
Nel 1888 era nata la Società delle Miniere di Montecatini, per lo sfruttamento di un giacimento di rame, nei pressi dell’omonima cittadina, dopo il 1910 l’azienda imboccò il cammino che l‘avrebbe portata a privilegiare l’attività chimica su quella estrattiva. Nel 1920 la Montecatini era la più grande fornitrice di prodotti chimici per l’agricoltura esistente in Italia, la sua attività si estese ai prodotti chimici per l’industria a partire dal 1930.
Poco dopo la fine della prima guerra mondiale, Luigi Casale a Terni e Giacomo Fauser a Novara, realizzarono, indipendentemente l’uno dall’altro, un processo per la produzione di ammoniaca, basato sull’ottenimento di idrogeno per elettrolisi. Nel 1920 nasceva la Società Elettrochimica Novarese (SEN), nel 1922, annesso allo stabilimento per la produzione di ammoniaca, sorse a Novara il primo laboratorio industriale italiano di ricerche chimiche. Per la Montecatini si apriva una fase che l’avrebbe condotta allo sviluppo dell’industria dell’azoto.
Nel 1924 sorse, a Novara, il primo impianto industriale per la produzione di ammoniaca, con una capacità di 15 tonnellate/giorno, insieme agli impianti per la produzione di acido nitrico, acido solforico e solfato ammonico. Nello stesso 1924 altri impianti per la produzione di ammoniaca con metodo Fauser vennero realizzati a Sassari, nei pressi di Merano, a Belluno e a Crotone.
Con la messa a punto della produzione industriale di ammoniaca e di acido nitrico si delineò lo sviluppo dei fertilizzanti azotati, primo fra tutti il solfato ammonico.
Estratto da: “Dalla Ferriera Pontificia alla Zecca di Terni alla SIRI”, Terni 1995.